Il Suono del Silenzio - Phillip Tomasso
Traduzione di Sara Staccone
Il Suono del Silenzio - Phillip Tomasso
Estratto del libro
Ero malato e non ne avevo idea. Quando lo scoprimmo, era già troppo tardi.
Patrick e io ci eravamo messi a provare qualche lancio nel cortile sul retro. Lui era a un’estremità, sotto un albero, mentre io mi trovavo nei pressi della felce che aveva piantato mia madre. Sapevamo che corrispondeva alla distanza esatta tra lanciatore e ricevitore, perché ci eravamo già allenati diverse volte lì.
Non ci stavamo mettendo troppa forza, dato che il giorno dopo avevamo una partita di Little League e non volevamo disperdere le energie. Siamo sempre stati compagni di squadra, fin da quando giocavamo a T-ball. Che fortuna, eh?
Lui era il ricevitore della squadra, io uno dei lanciatori. Immaginavo che gli allenatori della Batavia Little League non volessero dividere una coppia lanciatore-ricevitore. Una cosa del genere avrebbe potuto rivelarsi devastante, un po' come separare due gemelli.
– Ehi, Mark, hai già preso quel nuovo videogioco di baseball? – mi domandò Patrick.
Avevo capito a quale si riferisse. Era uscito da poco, ma era letteralmente andato a ruba. – Sì, l'ho preso. Mi è costato diverse paghette settimanali, ma credo ne valga la pena. È così realistico, sembra di giocare in una partita vera. Pensa, puoi persino far sputare i giocatori!
– Ma dai.
– Giuro. È fantastico, – risposi. Simulò un lancio alto, a campanile. Mi misi a correre seguendone la traiettoria e lo intercettai.
Per una frazione di secondo, dovetti chiudere gli occhi. Sentii una fitta tremenda alla testa.
– Tutto ok?
Annuii. – La grafica è pazzesca. I giocatori sembrano così reali, ti sembra di giocare con persone in carne e ossa. L'arbitro chiama le palle e gli strike. C'è un suonatore di organo che carica il pubblico a ogni lancio e dopo l'inizio e la fine di ogni inning. I giocatori grugniscono quando scivolano in casa base. Ripeto, è davvero fantastico.
– Lo immaginavo –. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e la lingua per poco non gli penzolava da un angolo della bocca. Sapevo cosa voleva sentirsi dire.
– Vuoi andare a giocarci? – Inspirai profondamente, trattenni l'aria nei polmoni per qualche secondo e poi espirai lentamente. Forse avevo bisogno di riposare un po'. Un videogioco sarebbe stato meno stancante.
– Magari… andiamo! – E fece per togliersi il guantone.
– Ehi, ragazzi! – Ci girammo in direzione della voce: appoggiati alla recinzione metallica del mio giardino c’erano Jordan e Tyrone, due nostri compagni di prima media.
Per la prima volta, Tyrone era in squadra insieme a me e Patrick. Di solito giocava in prima o seconda base.
Jordan invece batteva per la squadra ambita da molti di noi, i Demoli-Joe. Il proprietario, il cui nome era appunto Joe, aveva fatto preparare delle divise bellissime per i suoi ragazzi, che sulla schiena recavano il logo della sua impresa di sfasciacarrozze.
La nostra squadra, invece, era sponsorizzata dalla Sally Capelli. Il nostro simbolo non era niente di speciale: consisteva nel nome “Sally”, con un paio di forbici al posto della lettera Y. Bleah! Per fortuna almeno le nostre divise non erano rosa, o roba simile.
La squadra di Joe però non era migliore solo per il nome e lo stile della divisa: aveva anche delle ottime statistiche in attacco e difesa. Anno dopo anno, si confermava come una delle squadre più solide. Noi invece ci vergognavamo anche solo a pronunciare il nome della nostra squadra.
Io e Patrick ci avvicinammo lentamente alla recinzione e salutammo Jordan e Tyrone con una stretta di mano. Io volevo solo tornare in casa, sdraiarmi sul divano e riposare un po' la testa, ma sembrava che il videogioco avrebbe dovuto attendere ancora. – Che si dice?
– Niente di che, – rispose Tyrone. – Il papà di Jordan ci ha portati alle gabbie di battuta.
Guardai Tyrone cercando di non farlo sentire un traditore per essere uscito con Jordan proprio la sera prima dell'incontro. L'ultima cosa di cui la nostra squadra aveva bisogno era che Tyrone, la nostra seconda base, spifferasse i nostri punti di forza e le nostre debolezze a Jordan, un nostro avversario. D'altro canto, lui e Jordan erano grandi amici e passavano molto tempo insieme. Probabilmente non c'era niente di cui preoccuparsi. Come potevo biasimare Tyrone?
Provai a vederla in un altro modo: perlomeno si era allenato in battuta. Per non parlare del fatto che io stesso adoravo andare alle gabbie. Chiunque giochi a baseball adora andarci. Trattandosi di strutture al chiuso, ci si può allenare senza stare al freddo o sotto la pioggia. Si indossa il caso, ci si chiude nella gabbia assegnata e, dopo aver inserito una moneta per far partire la macchina, si colpiscono palle perfettamente calibrate finché le braccia non invocano pietà. Esiste forse di meglio?
– Figo, – dissi. – E com'è andata?
Tyrone fece spallucce. – Io me la sono cavata, Jordan invece ha spaccato. Su cinquanta palle ne avrà mancate al massimo cinque!
– Niente male –. Non era decisamente quello che volevo sentire.
Il coach aveva stabilito che sarei stato il lanciatore partente per l'incontro del giorno dopo, ed ecco che il mio compagno di squadra mi tranquillizzava dicendomi quanto fosse forte uno dei battitori avversari. Ma se non fosse stato Tyrone a farlo presente, ci avrebbe pensato Jordan: vantarsi era uno dei suoi hobby.
Il sudore mi imperlava la fronte: forse solo un po' di nervosismo prepartita. Era un peccato che Jordan non giocasse nella nostra squadra: un buon battitore faceva sempre comodo. Ma così non era, dunque adesso era ancora più importante portare a casa la vittoria. Se non fossi riuscito a eliminarlo con un triplo strike, me l'avrebbe rinfacciato in eterno.
– Volete fare due tiri? – chiese Patrick.
Lo guardai di traverso. Perché glielo stava chiedendo?
– Nah, – rispose Jordan. – Stiamo andando a casa mia.
– Ci vediamo domani agli allenamenti prima della partita? – chiese Tyrone.
– Cerca di arrivare un po' prima, – risposi, mentre iniziammo a salutarci con altre strette di mano. – Voglio provare dei lanci nuovi a cui sto lavorando.
Jordan alzò le sopracciglia.
– Forte, – rispose Tyrone. – Allora ci si vede, ragazzi.
E se ne andarono.
Patrick mi lanciò la palla. La presi al volo.
– Lanci nuovi, eh?
– Macché, era un bluff. Volevo solo spaventare un po' Jordan. Dici che ha funzionato?
– A me è sembrato che se la stesse facendo sotto.
Scoppiammo a ridere e ci infilammo di nuovo i guantoni, dimenticando momentaneamente il videogioco.
Senza preavviso, gli lanciai un bolide. Si sentì un fischio nell'aria, che sembrava essersi fatta da parte per far passare la palla, seguito dal soddisfacente schiocco del guantone pronto a riceverla.
– Ehi, amico, questa faceva male –. Patrick si sfilò il guantone e si strofinò il palmo della mano sui jeans. – Non avevamo detto di andarci piano?
– Scusa. È che… beh, Jordan mi ha fatto un po' innervosire.
– Perché? – Mi chiese ripassandomi la palla.
– Perché voleva che sapessi che era andato alle gabbie.
– Pensi che te l'abbia detto per metterti paura?
– Sì. Ne sono sicuro –. Gli rimandai la palla di forza.
– Sa che sei tu a lanciare domani?
– Gliel'avrà detto Tyrone, tanto stanno sempre insieme, no? – Era indifferente: Jordan l'avrebbe comunque scoperto il giorno dopo, appena iniziata la partita. Ma l'opportunità di saperlo in anticipo era probabilmente il motivo per cui aveva deciso di fare un salto e mettermi pressione, o quantomeno provarci.
– Ah. E allora? – Disse Patrick.
– È un ottimo battitore.
– E tu sei un ottimo lanciatore. Non hai niente da temere. Oltretutto, se domani lanci così, Jordan non ne prenderà mezza.
Mi scappò un sorriso all'idea. – Ma se alle gabbie le prendeva quasi tutte…
– Figuriamoci. Si sarà allenato con quella macchina che le tira lente. Chi mancherebbe una palla che gli arriva al rallentatore? Hai una pistola al posto del braccio, la palla è il tuo proiettile. Domani farà un liscio dopo l'altro.
– Dici?
– Fidati.
Con la coda dell'occhio vidi mia madre aprire la finestra della cucina. – Mark?
Alzai gli occhi al cielo. Patrick si fece una risata.
– Sì?
– Ha appena chiamato la madre di Patrick. Deve tornare a casa per cena.
Lo guardai. – Stiamo pensando la stessa cosa?
– Puoi contarci.
– Mamma, può restare a cena con noi stasera?
– Per me non ci sono problemi. Richiamo sua madre, – disse lei. – Tra l'altro è quasi pronto. Perché non tornate dentro e andate a lavarvi le mani? – Aggiunse richiudendo la finestra.
– Va bene, – gridai. Iniziammo a correre verso casa battendoci il cinque. – Ehi, che ne dici di fare una partitella a quel videogioco dopo mangiato?
– Ci sto! – Rispose Patrick.
– Muoio di fame –. Mi strofinai la pancia.
– Anch'io –. Mi lanciò un sorrisetto di sfida. – Gara a chi arriva prima!
Ci lanciammo verso casa come due ghepardi affamati che puntavano la stessa preda.
Vinse lui. Io fui costretto a fermarmi a pochi metri dalla fine. Dopo quella breve corsa, sembrava che la testa stesse per scoppiarmi da un momento all'altro.
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