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Oltre La Crepa Nel Marciapiede - Maryann Miller

Oltre La Crepa Nel Marciapiede - Maryann Miller

Traduzione di Cristina Borgomeo

Oltre La Crepa Nel Marciapiede - Maryann Miller

Estratto del libro

Con un rombo basso e costante, l’ultimo treno notturno uscì dalla stazione e si avviò lungo i binari. Ora la stazione era deserta, tranne che per un uomo solo che stava in piedi a fumare una sigaretta e a fissare il treno mentre le luci dei vagoni passeggeri scivolavano nell’oscurità. Mike era sempre stupito che il breve viaggio in treno di due ore da Dallas potesse essere così simile a un salto indietro nel tempo. Da un momento all’altro si aspettava che un gruppo di fuorilegge sbucasse dalla notte su cavalli al galoppo e fermasse il treno prima che sparisse dalla vista. L’ambientazione faceva molto Vecchio West, e si ricordava persino di quando una compagnia cinematografica aveva filmato un assalto al treno proprio lì, nei primi anni Sessanta.

Era stata un’eternità fa.

­Adesso era il quattordici aprile 1970 e Mike O’Leary era appena tornato dal Vietnam. Il giovane ragazzo eccitato che aveva assistito alle riprese di quel western era un lontano ricordo. Ed era molto lontano dal ragazzo che aveva ascoltato suo padre parlare del suo ritorno dalla Big One. Così definiva sempre la Seconda guerra mondiale, la “Big One”.

­“È stata ciò che ha reso ogni uomo un eroe”, diceva suo padre, dandogli una pacca sulla schiena con grande spavalderia. “Ragazzi, ricordo ancora le folle acclamanti quando la nave delle truppe attraccò. E la grande parata cittadina. E tutta l’eccitazione. Tutta quella gente che applaudiva e salutava per mostrare quanto apprezzasse quello che facevamo per loro”.

A Mike era sempre piaciuto ascoltare quelle storie, ma per lui erano solo questo. Storie. Non erano più reali dei libri d’avventura che leggeva, e non ci aveva pensato per anni. Fino al suo ritorno a casa.

Non c’erano parate. Nessuna folla acclamante. Nemmeno una faccia amica quando era sceso dall’aereo all’aeroporto internazionale di Los Angeles. La gente dava un’occhiata alla sua uniforme e si girava dall’altra parte. Alcuni con disgusto e altri semplicemente allontanandosi, proprio come fanno alcune persone quando guardano un bambino. Nessuno lo aveva salutato, o gli aveva stretto la mano, o gli aveva detto una parola gentile mentre attraversava mezzo mondo per tornare a casa.

Voleva gridare loro: “Guardatemi! Parlate con me! Fatemi credere che tutte quelle vite non sono state sprecate laggiù in quella giungla. Fatemi credere in qualcosa, qualsiasi cosa... in me stesso”.

Ma non gridò. Continuò semplicemente il suo viaggio solitario verso casa, un uomo arrabbiato, amareggiato e disilluso che non riusciva a decidere dove dirigere la sua rabbia.

Avrebbe dovuto essere arrabbiato per l’ironico scherzo del destino che gli aveva sempre impedito di essere all’altezza di suo padre? Quello stesso ironico scherzo del destino, che aveva reso la sua guerra priva di tutta la chiarezza di scopo di cui aveva goduto la guerra di suo padre. O doveva essere disilluso con le persone che avevano stabilito gli standard con cui si misuravano gli uomini? O con se stesso perché trovava ancora così difficile difendere l’uomo che era, cercando ancora così tanto di essere l’uomo che suo padre aveva sempre voluto che fosse?

O doveva essere amareggiato per il colpo di fortuna che lo aveva portato a superare indenne diciotto mesi di combattimento, mentre intorno a lui uomini buoni e rispettabili lasciavano le loro vite e il loro sangue su quel campo di battaglia? Forse i ragazzi che sono morti laggiù erano quelli fortunati, dopo tutto. Non c’erano sopravvissuti alla guerra. Solo uomini che tornavano a casa con un’uniforme, invece che in un sacco di plastica verde.

­Mike sapeva che suo padre sarebbe stato orgoglioso del suo curriculum di guerra e delle medaglie nelle scatole nere, nascoste nel suo borsone. Due pezzi d’argento che testimoniavano silenziosamente il suo coraggio e la sua virilità. Ma suo padre avrebbe capito la realtà della paura che gli attanagliava le budella e la tremante incertezza che negava quella virilità?

O forse avrebbe dovuto essere amareggiato per la sua relazione con John che lo aveva sostenuto attraverso tutto questo, rivelando una parte di sé che Mike aveva accuratamente negato dal giorno in cui aveva quindici anni?

Mentre Mike stava lì a respirare profondamente l’aria fresca e pulita, sapeva quasi istintivamente che il sottile brandello di relazione che li legava insieme, padre e figlio, era in bilico in questo ritorno a casa.

­Spense la sigaretta sulle vecchie e scricchiolanti assi della piattaforma, si caricò il borsone sulle spalle larghe e si diresse verso la stazione. Quando si avvicinò, riconobbe il pick-up malconcio parcheggiato di fronte. Era lo stesso mucchio di metallo arrugginito e ammaccato che per anni aveva portato lui e i suoi amici in giro per la città delle mucche di Comanche. Poi Mike scorse la figura di un uomo appoggiato con disinvoltura alla fiancata del fuoristrada. Non poteva sbagliarsi nemmeno su quell’uomo. Anche nell’oscurità, Mike riconobbe la potente presenza di Tom O’Leary.

­­­­L’uomo, più anziano, con indosso Levi’s, Stetson e stivali, si alzò fino a raggiungere il suo imponente metro e ottanta, mentre guardava suo figlio avvicinarsi. Per un attimo non fu sicuro che fosse Mike. Era cambiato, era diventato più alto e aveva qualche muscolo in più. Tom si chiese quali orrori avessero causato le rughe sul viso di Mike. O c’era dell’altro? Era quel qualcosa di intangibile che lo turbava da tempo, un tempo più lungo di quanto riuscisse ad andare indietro con la memoria? Gli amici di Tom avevano sempre ignorato rispettosamente la mancanza di entusiasmo di Mike per le ‘imprese virili’, ma Tom sapeva cosa pensassero. Con questo ritorno a casa, Mike poteva dimostrare chi era una volta per tutte, e Tom sapeva di avere in gioco tanto quanto Mike.

“Mike... Mike... è così bello averti a casa”, disse Tom. “Non potresti mai immaginare quanto ci siamo preoccupati per te. Come stai?”

Mike strinse la mano callosa di suo padre. “Sto bene, papà. Proprio bene”.

Tom guardò a lungo suo figlio. Le occhiaie sotto gli occhi di Mike e l’infossamento delle sue guance non sfuggirono al suo accorto esame. “Davvero? Sembri terribilmente stanco e magro”.

“Starò bene con un po’ di riposo e del buon cibo”.

“Allora è meglio andare. Getta la tua roba sul retro e sali a bordo”.

I ­due uomini rimbalzarono lungo la strada sterrata, in silenzio. Mike percepì che suo padre era a disagio tanto quanto lui, ed esitò a invadere la privacy dell’anziano.

­“Bene”, disse finalmente suo padre, la sua voce roca spezzò il silenzio come una frusta. “Alcuni dei ragazzi hanno pensato che potremmo fare un barbecue, domani sera. Per festeggiare il tuo ritorno a casa e darti la possibilità di raccontarci tutto”.

“È bello, papà, ma non credo di essere pronto”.

“Certo. Se sei troppo stanco, possiamo rimandare a un’altra sera”.

Mike esitò un momento poi disse: “Non è questo. È solo che non voglio ancora parlarne”.

La fermezza nella voce di Mike fece sì che Tom frenasse la sua prossima risposta e proseguisse in silenzio.

Mentre passavano gli annessi del Ranch e si avvicinavano alla casa principale, Tom guardava tutto con orgoglio e un senso di appartenenza riempiva ogni fibra del suo essere. Era come tornare a casa dalla chiesa e mettersi gli stivali e i jeans. C’era qualcosa di appropriato, adatto e confortevole nel ranch, ed era l’unico posto in cui Tom si sentiva completamente a casa. Il suo unico rimpianto era che sua moglie, Mattie, scomparsa ormai da dieci anni, non avesse vissuto per goderselo con lui.

Mike vedeva tutto come se fosse un estraneo in visita.

­La casa era proprio come la ricordava; alta e maestosa, somigliante alle enormi dimore che abbellivano le piantagioni del sud, ed era commosso da tutta quella pacifica bellezza. Ma non aveva mai pensato che fosse sua, non sentiva quel senso di appartenenza. Non come suo padre. L’unico posto che dava a Mike un senso di appartenenza era il pascolo, quando lavorava con il bestiame. Le altre cose considerate virili lo facevano sentire un estraneo.

Tom spense il motore. L’unico suono che si sentiva era il vento notturno che frusciava tra i pioppi a cui stavano appena iniziando a spuntare le foglie. Era una scena tranquilla, e nessuno dei due uomini sembrava avere fretta di entrare in casa. Rimasero seduti in silenzio per qualche istante e poi Tom si rivolse a Mike. “Se non vuoi proprio fare il barbecue, non siamo obbligati a farlo. Sei tu che decidi”.

Mike lanciò un rapido sguardo a suo padre. “Davvero, papà? Decido io, davvero?”

“Certo. Ora sei un uomo e ti sei guadagnato il diritto di essere il capo di te stesso. Capisco quello che hai passato, e se vuoi qualche giorno...”

“È più di questo”, disse Mike. “Non è solo la guerra”.

Di nuovo, c’era una durezza nella voce di Mike che sembrava mettere in guardia Tom, ma questa volta parlò più forte: “Cosa vuoi dire?”

“Le differenze. I conflitti. Le barriere che si sono sempre frapposte tra noi”.

Tom scosse la testa. “Non ho mai voluto che andasse così”, disse, la sua voce dura. “Ho cercato di far funzionare le cose tra noi”.

“Alcune cose non sono facili da manipolare come altre”, disse Mike, attento a non alzare la voce. “Non puoi controllare la vita come fai in questo ranch”.

Tom lanciò al figlio uno sguardo arrabbiato. “Dobbiamo discutere la tua prima notte a casa?”

Mike sospirò. “Non voglio litigare, papà. Non l’ho mai voluto, neanche in passato. Ma è ora che ci capiamo. L’unico modo per farlo è parlarci. Niente rabbia. Niente urla. Solo parlare”.

Tom sembrò riflettere sulle parole di Mike per qualche minuto, poi scese dal fuoristrada e camminò intorno al cortile con le mani infilate nelle tasche dei jeans.

Dopo un momento, Mike scese e si avvicinò. “Potremmo almeno entrare a bere qualcosa”.

“Certo, figliolo”. Tom si voltò verso Mike con evidente sollievo. “Devi essere terribilmente stanco dopo tutto quel viaggio”.

Tom sorrise, ma Mike notò che gli occhi del padre erano ancora turbati. Toccò leggermente una spalla dell’anziano, poi prese la sua borsa dal fuoristrada e si diresse all’interno. Portò le sue cose nella sua stanza al secondo piano. Era ancora la stessa di quando era partito, poco più di tre anni fa, e quella staticità lo fece sorridere.

Dopo una sosta in bagno, Mike tornò al piano di sotto e raggiunse suo padre nello studio. L’ampia e confortevole stanza era arredata con pesanti e ricchi mobili in pelle, e sopra il camino in pietra erano appesi dei trofei di caccia. Decisamente una stanza da uomo, dal bar ben fornito all’armadietto di quercia nell’angolo con abbastanza armi da equipaggiare una banda di buone dimensioni, se ci fossero ancora cose del genere.

Mike si sedette su una delle poltrone di fronte al camino, e Tom si avvicinò per porgergli un bicchiere con una generosa quantità di bourbon liscio. “Al tuo ritorno, sano e salvo”.

Tom alzò il bicchiere e bevve un bel sorso. Poi posò il bicchiere sul tavolo, si sedette di fronte a Mike e prese un sigaro dall’umidificatore.

“Non c’è niente al mondo come un buon bourbon del Kentucky e un buon sigaro”.

Tom tagliò l’estremità del sigaro e lo assaggiò. Spinse la scatola verso Mike. “Ne vuoi uno?”

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