Un Impeto D’ira - Zach Abrams
Traduzione di Laura Contrada
Un Impeto D’ira - Zach Abrams
Estratto del libro
Dopo una mattina piuttosto ordinaria, la giornata di Alex Warren aveva preso una svolta decisamente negativa. Non si sentiva affatto contento.
Lo spettacolo stomachevole del cadavere che si presentava ai suoi occhi era un pasticcio di sangue e viscere. Una macchia rosso brillante si espandeva dalla ferita, costellata di brandelli di carne un tempo morbida e grumi di sangue scuro ormai rappresi. Gli occhi spalancati e colmi di orrore della vittima inasprivano la profonda bruttezza della scena. L’odore del sangue si insinuò nelle narici di Warren. Immaginò di sentire quel sapore metallico sulla lingua e venne assalito dalla nausea. Lanciò un’ultima occhiata al cadavere con estrema riluttanza prima di espirare rumorosamente. Anche quando distolse lo sguardo gli sembrò che tutta la stanza fosse dipinta di rosso sangue. Era confuso. Non c’erano dubbi sul modo in cui Stevenson era stato assassinato e Warren sospettava persino di conoscere il movente che aveva animato il suo aggressore. Non era sorpreso che qualcuno lo avesse ucciso, piuttosto che non lo avesse fatto prima. A lasciare Warren più perplesso era la lunga lista di possibili colpevoli.
La postura solitamente imponente dell’ispettore capo Alex Warren era cedevole, le spalle ricurve. I capelli neri sembravano indomabili e le guance rasate di fresco, generalmente ossute e spigolose, erano flosce; il suo tipico colorito salutare aveva lasciato il posto a una tinta molto simile a quella della tuta protettiva bianca che indossava. Di solito dimostrava poco più di trent’anni, ma quel giorno tutte le sue quarantuno primavere sembravano pesargli sulle spalle. Soltanto i suoi vivaci occhi verdi mantenevano la loro brillantezza usuale. Era demoralizzato per essere stato scelto come responsabile delle indagini e aver ricevuto l’ingrato compito di rintracciare l’assassino di Stevenson. Era inusuale per lui non avere voglia di risolvere un crimine. La motivazione principale di quell’inerzia risaliva al fatto che era contento di vedere Scott Stevenson finalmente morto: la persona che gli aveva tolto la vita, per lui, era più un eroe che un criminale, eppure gli spettava il compito di scoprire la sua identità e assicurarlo alla giustizia. Ma si trattava davvero di giustizia?
Alex Warren conosceva fin troppo bene Scott Stevenson. Aveva ricevuto innumerevoli denunce che lo dipingevano come un ladro e un imbroglione che sottraeva con l’inganno alle sue vittime, specialmente anziani indifesi, i risparmi di una vita, oggetti di valore e qualsiasi eredità che avessero messo da parte per i loro parenti prossimi. Almeno tre dei poveri vecchietti imbrogliati, stando ai fascicoli di Warren, si erano ammalati gravemente fino a morire per il dolore causato da Stevenson.
Sebbene non potesse esprimere la sua opinione a voce alta, Warren riteneva che Stevenson meritasse di morire e credeva che l’antica scultura d’avorio lunga quasi mezzo metro che gli avevano piantato nel petto fosse un’arma del delitto appropriata. La scultura aveva una forma di luna crescente ed era probabilmente appuntita. Sembrava essere stata intagliata a partire dal corno di un elefante e Warren non poté evitare di sorridere di fronte all’ironia della situazione. Si diceva infatti che gli elefanti avessero una memoria infallibile e chiaramente non erano gli unici a non aver dimenticato le malefatte di Stevenson. Inoltre, la vittima si era fatta un nome nel giro di affari loschi che coinvolgevano oggetti di antiquariato. Utilizzare un antico corno di elefante intagliato per ucciderlo era stata senza dubbio una mossa molto azzeccata.
Scott Stevenson non aveva qualità positive. Era alto un metro e sessanta e largo poco meno. La ciliegina sulla torta che era quel suo corpo obeso era una testa sferica, pelata, ornata da un paio di occhiali dalla montatura spessa e nera che non facevano altro che enfatizzare i suoi occhietti da suino, un naso altrettanto animalesco e due grosse orecchie a punta che avrebbero reso fiero un Vulcaniano. A una simile avvenenza corrispondeva un carattere vanesio che l’aveva portato a vantarsi di quando, una notte, una donna di cui aveva comprato tempo e servizi lo aveva adulato dicendogli che aveva il corpo di un dio, incapace com’era di cogliere il suo evidente sarcasmo e un’allusione a Buddha. Ma il suo aspetto fisico non era niente se paragonato al suo carattere deprecabile. Negli anni aveva sviluppato una strategia spregevole: entrava nelle grazie degli anziani più soli e desiderosi di compagnia, specialmente se si trattava di docili vecchiette, per ottenere l’opportunità di accedere alle loro abitazioni. Una volta entrato, anche se le sue vittime si mostravano restie a fornire troppe informazioni, impiegava ben poco a identificare eventuali oggetti di valore. In passato aveva preso di mira i loro risparmi, sfruttando la fiducia che gli anziani riponevano in lui per convincerli a investire in affari poco raccomandabili, assicurando delle facili opportunità di guadagno con cui avrebbero potuto migliorare le loro condizioni di vita e quelle dei loro cari. Aveva sottoscritto delle assicurazioni sulla vita prima che venissero regolate dalle leggi attuali, poi aveva proposto investimenti loschi ma a suo dire enormemente redditizi in settori che andavano dei mercati immobiliari esteri fino all’allevamento delle ostriche. Negli ultimi anni si era concentrato invece sugli oggetti di antiquariato e le suppellettili di pregio: convinceva le sue vittime che stava facendo loro un favore a liberarli di quegli oggetti polverosi, che pagava una frazione infinitesimale del loro valore e poi rivendeva per cifre esorbitanti. Sfortunatamente era difficile, anzi, quasi impossibile dimostrare il crimine commesso, perché Stevenson era sempre stato molto meticoloso nel compilare e conservare i documenti che giustificavano e confermavano le sue transazioni.
Solo negli ultimi anni erano state sporte innumerevoli denunce nei suoi confronti: ogni vittima e tutti i loro familiari ricadevano nella lista dei potenziali sospettati per l’omicidio, senza contare la moltitudine di persone troppo imbarazzate per rivolgersi alle autorità e di conseguenza rimaste nell’ombra.
Warren rabbrividì al pensiero di ciò che lo aspettava. Investigare la sua morte avrebbe significato interrogare le vittime delle malefatte di Stevenson e soprattutto costringerle a rivivere il trauma che avevano dovuto subire. Non avevano già sofferto abbastanza?
Quando era stato assegnato al caso, Warren aveva considerato le sue opzioni. Avrebbe voluto rifiutare, ma in assenza di una motivazione legittima la sua decisione avrebbe potuto mettere a rischio la promozione che aspettava. Il motivo più convincente era la sua relazione personale con la vittima. Diciotto mesi addietro, non molto prima della fine del suo matrimonio e in piccola parte motivo della rottura definitiva, un’anziana zia di sua moglie Helen era caduta nel tranello di Stevenson. Spronato dall’insistenza della moglie, Warren aveva dovuto ricorrere a tutte le sue doti persuasive, a delle tirate di orecchie non completamente metaforiche e alle tattiche definite inaccettabili nei manuali di polizia per riavere gli oggetti che erano stati sottratti alla vecchina. Per quell’indagine non aveva voluto né potuto redigere verbali, motivo per cui addurre il suo rapporto personale con la vittima come motivazione per scampare al caso gli si sarebbe ritorto contro. Avrebbe potuto fingere di essere malato e prendersi qualche giorno di malattia, il tempo necessario perché qualcun altro venisse messo a capo delle indagini, ma così facendo avrebbe ingannato la giustizia e per lui quella bugia, sebbene non fosse una trasgressione paragonabile a quelle di Stevenson, lo avrebbe posto allo stesso livello del criminale. Non poteva comportarsi in una maniera così ipocrita, era un’opzione semplicemente inaccettabile. Aveva quindi deciso di stringere i denti e sopportare, nella speranza che le capacità della sua squadra si rivelassero sufficienti a risolvere il caso in fretta e prima di fare altri danni.
Warren si aggirò nel negozio di Stevenson e ispezionò la scena del crimine. Era un emporio di dimensioni modeste, circa centoquaranta metri quadrati, in cui aveva organizzato un ufficio, un cucinino, un bagno e una vasta area open space in cui facevano bella mostra di sé dei mobili, delle porcellane e un miscuglio eclettico di oggetti da collezione disposti in ordine artistico. Dietro l’olezzo di morte si percepiva l’odore di oli per il legno e lucidi che aveva utilizzato per esaltare la bellezza del mobilio scuro. Contro una parete aveva sistemato una fila di espositori in vetro chiusi a chiave che contenevano costosi gioielli di seconda mano e una varietà di oggettini d’oro e d’argento. L’assassino non aveva toccato nulla, incluse la cassaforte nell’ufficio e la cassa: era chiaro che la sua morte non era il risultato di una rapina finita male.
Warren lanciò una seconda occhiata al cadavere. Il corpo di Stevenson era accasciato su una poltroncina, tra il seduto e lo sdraiato, con una gamba stesa e un’altra piegata con il piede poggiato sul pavimento. Aveva la bocca e gli occhi spalancati, ma ad attirare l’attenzione dell’investigatore furono ovviamente il corno d’avorio conficcato nell’addome di Stevenson e la macchia scura che aveva sporcato la camicia bianca e il cardigan blu che indossava. Warren si avvicinò e notò che il sangue era colato anche sul tessuto di broccato della poltrona e, a giudicare dalla puzza che pervadeva quella parte della stanza, Stevenson aveva evacuato l’intestino al momento della morte. Warren dubitava fortemente che la poltroncina avrebbe attirato futuri acquirenti pronti a sborsare i 3500 euro richiesti dal cartellino.
«Sarà meglio lasciar fare a noi, capo» disse Connor, per poi aggiungere con un sorrisetto: «Non mi sembra difficile stabilire la causa della morte. Magari noi riusciamo a trovare qualcosa di utile.»
Warren si fece subito da parte. La scientifica aveva bisogno di tempo e spazio per fare il suo lavoro e inoltre nutriva un enorme rispetto per Connor. Si era dimostrato cruciale per la risoluzione di numerosi casi e in molti altri aveva estrapolato degli indizi che erano stati fondamentali per incastrare i colpevoli. Fece un passo indietro e approfittò del vantaggio del suo metro e novanta per osservare i tecnici che si muovevano freneticamente davanti ai suoi occhi, un flusso continuo ma accorto di attività in cui identificavano, fotografavano, raccoglievano ed etichettavano tutto ciò che ritenevano sospetto o fuori posto. Nessuno di loro raggiungeva il metro e settanta e, così infagottati nelle tute e negli stivali protettivi, Warren non riusciva a identificarli se non dalle voci. Gli ricordavano gli Umpa Lumpa del film “Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato”.
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