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Testi

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L'alba dei Ribelli (Serie Alba dei Ribelli Volume 1) - Michelle Lynn

L'alba dei Ribelli (Serie Alba dei Ribelli Volume 1) - Michelle Lynn

Traduzione di Elena Tonazzo

L'alba dei Ribelli (Serie Alba dei Ribelli Volume 1) - Michelle Lynn

Estratto del libro

L’ora di storia è pallosissima. Mi ciondola il mento, faccio un’immensa fatica a restare sveglia. Il professor Giles sta parlando da mezz’ora, ma non ricordo niente di cos’ha detto. Che palle! Sono stufa di quest’ora, stufa di questa scuola, stufa della mia vita. Sbuffo. Un ragazzo della fila accanto si volta, incuriosito. Scuoto la testa come a dirgli “non ci badare”.

«Le Colonie rappresentano il peggio che possa accadere a una società moderna», sta dicendo il professore.

Spalanco gli occhi, d’improvviso sveglia. Le mitiche Colonie: ascolto avidamente chiunque ne parli sin da bambina.

«Sono la prova che, in mezzo al disastro, i Paesi forti sopravvivono e i deboli muoiono: non dimentichiamoci mai gli errori che hanno portato alla loro rovina.»

Il suono della campanella di fine lezione mi fa sobbalzare sulla sedia.

«Il compito per lunedì è scegliere una delle ragioni per cui le Colonie sono state distrutte e scrivere le vostre riflessioni. Usate il libro di testo. Potete andare. Riprendiamo la settimana prossima.»

Stordita, mi rendo conto che i miei compagni hanno già messo via i libri. Giro lenta intorno al banco, raccolgo lo zaino e mi dirigo alla porta per ultima. Tutto ciò che incontro, camminando verso l’uscita della scuola, sembra una massa sfocata. Solo il mio nome gridato più volte mi strappa al mio torpore, e per poco non inciampo nei miei passi, quando una mano mi afferra da dietro per una spalla.

«Alba.» È Gabby, mia sorella, indispettita come al solito. «Ti chiamo da quand’ero in fondo al corridoio.»

«Scusa, sono molto stanca.»

Chiunque ci guardasse non indovinerebbe mai che siamo sorelle. Gabby è la maggiore, alta e snella, coi capelli ondulati biondo ramato lunghi fino alle spalle, gli occhi verde brillante che risaltano sul viso abbronzato e il sorriso irresistibile di chi sa bene come usarlo. Io invece sono bassa, mingherlina, i miei capelli sono di un castano slavato e li tengo corti… perché mai dovrei sistemarli? Il mio aspetto mi si addice: mi fa passare inosservata, proprio come voglio io.

«Alba, Alba, Alba!» Gabby sta facendo schioccare le dita davanti alla mia faccia. Odio quando fa così. «Cosa c’è che non va oggi? Ti comporti da stralunata. Ci sei o ci fai?»

«Perché? Solo tu dici e fai cose sensate?» ribatto d’impulso, ma appena mi guarda male abbasso gli occhi. «Scusa, ho avuto una giornataccia. Andiamo a casa, va bene?»

«Appunto. Ti cercavo per dirti che Drew mi porta a fare un giro in macchina. Poi troverò il modo di tornare a casa da sola.»

«Non può accompagnarti lui?» mi sfugge, anche se so già la risposta.

«Assolutamente no! Vuoi che mandi all’aria tutto? Vado a cercarlo, ciao.»

Che acida! La saluto e continuo per la mia strada. A momenti la richiamo per ricordarle il coprifuoco, ma no, posso evitare. Lo sa già. C’è un rigido coprifuoco imposto dal governo da quand’ero piccola: di sera bisogna essere a casa entro le nove. Gabby non sempre lo rispetta, ma sinora l’ha sempre fatta franca.

Sono quasi alla fine del corridoio, quando sento ridacchiare da un’aula alla mia sinistra: appoggiata contro la lavagna c’è una ragazza che riconosco subito – è una della squadra di atletica di Gabby – e davanti a lei, vicinissimo, un tipo che non ricordo di aver mai visto prima, probabilmente uno dell’ultimo anno. Lei ridacchia ancora, lui colma la distanza che li separa e le tappa la bocca con la sua. Ecco, lo sapevo che dovevo farmi gli affari miei! Una vampata di calore mi si arrampica su per il collo, ma non riesco a staccare gli occhi dalla scena: lui ha la maglietta aderente sulla schiena ben modellata, lei si aggrappa alle sue spalle… Basta! Via di qui!

Arrivo di corsa all’uscita della scuola, spingo la doppia porta ed esco. Troppo tardi: il mio autobus si sta allontanando dalla pensilina. Merda. E adesso che faccio? Il cortile è quasi vuoto. Non è consentito restare dopo la fine delle lezioni: col suono della campanella iniziano ad arrivare i soldati, che usano il cortile per le esercitazioni. Non mi resta che andare a prendere la metropolitana.

Cammino piano, vicino al muro, per farmi sorpassare facilmente. Sembra che abbiano tutti cose urgenti da fare; io invece non ho fretta di arrivare a casa. In questa zona di Londra – la City – stanno i ricchi. Le vie sono un susseguirsi di negozi di lusso dove i comuni mortali se lo sognano di fare shopping. Il mio posto non è qui, e non sono l’unica a notarlo: mentre mi sorpassano, uomini in giacca e cravatta e donne in tailleur mi gettano occhiate sospettose.

Ho preso la metropolitana per tornare a casa da scuola poche volte. Difficilmente perdo l’autobus. Se non avessero chiuso l’East End Academy, non sarei mai dovuta venire in una scuola nella City. Girava voce che l’Academy fosse un vivaio del movimento dei Ribelli. Non dico che chiuderla sia stato uno sbaglio, perché i Ribelli – i disobbedienti – sono pericolosi. Sin da piccola sento ripetere: «Una società funziona meglio se tutti i cittadini rispettano la legge, come dimostra l’Inghilterra, sopravvissuta in un mondo che ha visto tanti Paesi collassare». A volte però ho dei dubbi: non sono cieca, vedo cosa fa il nostro governo. D’altra parte, una ribellione armata genera solo altra violenza, e il che non è un bene, senza contare che non è da me combattere.

Mi ci vuole quasi un’ora per raggiungere la stazione. Scendo ai binari con la scala mobile. Striscio la tessera ai tornelli. La tessera me l’ha procurata Gabby: come ha fatto non lo so, né voglio saperlo; ho smesso di farle domande scomode molto tempo fa.

Oltre che pulita è bella, questa piattaforma: ci sono un grande dipinto murale dai colori vivaci e tanti cartelloni pubblicitari luminosi. Mentre aspetto il treno guardo le persone, classificandole all’istante in base a come sono vestite. Siamo divisi in tre strati sociali: l’alta società, il ceto medio e il resto, di cui, per ora, da quando sono orfana, faccio parte anch’io. È il governo a decidere qual è il tuo posto definitivo. Ti viene comunicato l’ultimo anno di scuola. Se sei molto bravo, o molto ricco, vai all’università e alla fine ti viene assegnato un bel lavoro che ti permette di fare un sacco di soldi. Se hai un minimo di capacità atletiche, diventi un soldato. Gabby è già stata assegnata alle forze armate. I militari costituiscono praticamente l’intero ceto medio. La terza possibilità è per i senza risorse e i senza cervello: vengono assegnati al servizio pubblico e ricevono paghe basse. Io spero di essere mandata all’università.

Arriva il treno: m’infilo tra la folla, salgo sulla carrozza più vicina e resto in piedi, aggrappandomi a un corrimano. Quand’è ora di scendere sono rimasti pochi passeggeri: non sono in molti a vivere nell’East End, la zona più a rischio di Londra – o meglio, non molti fra quelli che possono permettersi di prendere la metropolitana.

Scendo. Il contrasto fra questa piattaforma e quella della City sarebbe scioccante, se non fossi abituata al degrado: l’intonaco dei muri è scrostato, la spazzatura imbratta il suolo dai cestini capovolti e le sole opere d’arte sono i graffiti. Ovviamente la scala mobile è rotta.

Dopo aver arrancato su per i gradini, devo percorrere circa dieci isolati per arrivare a casa. Mentre cammino lascio vagare la mente, ritrovandomi all’ora di storia e agli aneddoti che ci raccontava papà per farci fare le brave: il cattivo di turno finiva sempre nelle Colonie. Sì, perché nelle Colonie ci sono le prigioni d’Inghilterra. I criminali vengono deportati lì direttamente e non tornano mai più: così il nostro governo risparmia sulle spese dei tribunali e la nostra società si sbarazza della feccia.

«Levati di mezzo!»

Sbatto con la spalla contro il muro mentre l’uomo che mi ha urtata si allontana correndo a perdifiato. Sto per proseguire, quando cinque, no, sei soldati mi sorpassano, raggiungono il tipo, lo placcano, uno estrae la pistola e gli spara in testa. Non oso muovermi. Non oso fiatare. L’uomo viene lasciato lì dov’è, in mezzo alla strada.

Ficco le mani in tasca e le stringo a pugno per calmarne il tremito. Ricomincio a camminare solo quando i soldati sono completamente fuori dalla mia visuale. Più avanti, passo oltre il cadavere senza guardarlo: se non vuoi problemi, devi tenere gli occhi bassi e la bocca chiusa, lasciando che la guerra urbana tra le forze armate e i Ribelli faccia il suo corso.

Quando arrivo a casa sta già venendo buio. Non mi piacciono le sere in cui Gabby fa tardi. Non mi piace restare da sola. Salgo le scale del mio edificio, stando attenta a non toccare muri e corrimano. Dalle porte d’ingresso aperte lungo i corridoi mi arrivano cenni di saluto e sorrisi: le lasciamo aperte o accostate perché sono rotte. In verità, l’intero posto è malmesso, squallido: detto altrimenti, siamo occupanti abusivi di un edificio che prima o poi verrà demolito.

Entro in camera mia, tiro fuori il libro di testo che mi ha dato il professor Giles e inizio a fare i compiti. Spero che Gabby rientri presto.

Ucciso Da Un Didgeridoo (I Gialli Di Jamie Quinn Libro 1) - Barbara Venkataraman

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