Ucciso Da Un Didgeridoo (I Gialli Di Jamie Quinn Libro 1) - Barbara Venkataraman
Traduzione di Marcella Di Cintio
Ucciso Da Un Didgeridoo (I Gialli Di Jamie Quinn Libro 1) - Barbara Venkataraman
Estratto del libro
Non so perché mi senta in colpa, non l’ho mica ucciso io, quel tipo. Non lo conoscevo nemmeno, ma tutti dicevano che fosse un gran bastardo. Mettiamola così, quando si è saputo che Spike era morto, che era stato ucciso con uno dei suoi strumenti musicali, sono partiti i festeggiamenti in tutta la città. Alcuni hanno brindato alla sua morte con champagne costosi, mentre altri hanno fatto tintinnare bottiglie di birra fredda; in base al quartiere. E mentre si raccontavano molte storie quella notte – nessuna di queste era lusinghiera, ve lo assicuro – tutti erano d’accordo su una cosa: Spike era un bugiardo e un imbroglione, una vergogna di uomo, avrebbe derubato sua madre, se avesse saputo dov’era, o sarebbe andato a letto con la moglie di un amico, se avesse avuto un amico, cosa che non aveva. L’unica compagnia di Spike era il suo cane, Beast, un pastore tedesco che lo seguiva ovunque, e nemmeno lui era molto amichevole.
Probabilmente vi starete chiedendo come Spike abbia potuto avere un negozio di musica così di successo, pur essendo un tale idiota. La risposta è semplice: era una rock star. Per davvero. I suoi assoli di batteria erano leggenda. Dopo che il primo album degli Screaming Zombies, Deathlock, divenne disco di platino nel 1999 e Spike vinse il titolo di batterista dell’anno, sembrava che non ci fosse modo di fermare la piccola band di liceali. Spike trovò un modo. Con il suo enorme ego e la sua predisposizione alla paranoia, riuscì a far incazzare tutti in poco tempo, inclusi il manager della band, l’agente, il pubblicitario, il produttore, fino al capo dell’etichetta discografica. Soprattutto i tecnici del suono lo disprezzavano. Gli sistemavano la batteria nel modo sbagliato o gli spegnevano le casse ogni volta che potevano. E non dimentichiamo il resto degli Screaming Zombies, Snake, Slasher e Slime, alias Daryl, Marcus e Ricardo; avevano un milione di ragioni per odiare Spike, la maggior parte delle quali erano di un inconfondibile verde, con sopra immagini di presidenti morti. Lo incolpavano dell’implosione della band e dello spettacolare crollo verso il basso che li aveva lasciati al verde come quando avevano iniziato. Dicono che bastino solo dieci minuti per abituarsi a vivere nel lusso, ma una vita intera per abituarsi a vivere senza. Fortunatamente per gli Zombies erano sempre fatti, così i loro ricordi della bella vita erano troppo confusi per essere dolorosi.
Andiamo avanti veloce di tre settimane, fino al presente, quando Spike, morto ovviamente, ha in qualche modo preso il controllo della mia vita, facendomi mettere a rischio la mia casa, la mia reputazione e la mia sanità mentale. Beh, ammettiamolo, tanto per cominciare, non ero una persona stabile neanche prima, ma comunque...
È difficile cominciare a raccontare, ma eccoci qui. Il mio nome è Jamie Quinn. Jamie non è l’abbreviazione di niente; mia madre pensava solo che fosse un bel nome, uno che offrisse più opportunità di Courtney o Brittany. Non voleva appesantirmi con gli stereotipi della società scegliendo un nome troppo femminile, o che suonasse come quello di una coniglietta di playboy. Guardava sempre al futuro, il che la rendeva anche una grande infermiera. Riusciva a unire i punti più velocemente di chiunque altro, sapeva sempre quando un paziente stava per peggiorare. I suoi colleghi dell’Hollywood Memorial Hospital (uno dei migliori ospedali della Florida) erano così colpiti dalla sua abilità, che iniziarono a chiamarla “Sue la sensitiva.” Anche se lei faceva finta di niente ogni volta, penso che fosse orgogliosa del suo soprannome. Era il suo superpotere, diceva. Superman poteva avere la vista a raggi X, ma non avrebbe mai potuto eguagliare le sue capacità diagnostiche.
Purtroppo, come ogni super potere, quello di mia madre poteva essere usato per il bene o per il male. E quegli occhi verdi nascondevano dei segreti. Quando il suo cancro tornò, lei fu la prima a saperlo, ma lo tenne per sé finché non fu troppo tardi per una cura. Sono sicura che abbia avuto le sue ragioni, ma non me ne viene in mente neanche una che abbia senso. Come al solito, aveva pianificato tutto. La sua assicurazione sulla vita ha pagato la piccola casa in cui sono cresciuta in Polk Street e mi ha lasciato abbastanza soldi per prendermi un pò di tempo libero e raccogliere i miei pensieri. La raccolta dei pensieri è stata una sua idea. Ora, sei mesi dopo, sto ancora cercando di raccoglierli, ma è inutile. Sono ombre cinesi, sbuffi di fumo grigio che fluttuano nel mio cervello e si rifiutano di essere catturati. In qualche modo, mia madre sapeva che la sua morte sarebbe stata una bella botta per me. Sue la sensitiva colpisce ancora.
C’è un’altra cosa che dovete sapere di me: non dormo quasi per niente. Mettiamola così, se facessi un corso di sonno, prenderei una ‘F’ (con una ‘A’ per lo sforzo, ma non conta). Ma non pensate che mi stia autocommiserando – non è così. Tutto questo è rilevante per la storia. Siccome non dormo molto, di notte vago per la casa come il fantasma del padre di Amleto (anche lui si chiama Amleto, naturalmente), ma sono molto più tranquilla. Non faccio tintinnare le catene e non chiedo niente a nessuno. Tuttavia, ho bisogno di dormire di più durante il giorno rispetto alla maggior parte delle persone, solo per recuperare, cosa che sono in grado di fare ora che non sto lavorando. Ve lo dico solo per farvi capire come ho fatto a dormire durante la chiamata di mia zia Peg e il suo messaggio isterico sulla mia segreteria telefonica.
Era lunedì primo luglio, il giorno in cui Spike (appena morto) ha preso possesso della mia vita. Scesi dal letto verso le undici (di mattina) dopo una notte particolarmente dura (anche se a questo punto diventava sempre più difficile classificarle), quindi non notai la luce lampeggiante sul telefono fino alla seconda tazza di caffè. Quasi nessuno mi chiama sul telefono fisso, così pensai che fosse solo telemarketing o qualcuno che stava facendo un sondaggio. Quando finalmente cedetti e premetti il pulsante, il suono stridulo del pianto di mia zia Peg mi fece rovesciare il caffè sulle ginocchia. Le sue parole fecero schizzare la mia adrenalina a nuovi livelli.
“Oh, mio Dio, Jamie, dove sei? Non riesco a trovare il tuo numero di cellulare... non so cosa fare. Ho bisogno del tuo aiuto... Adam è nei guai (singhiozzava in quel punto e non riuscivo a capire cosa stesse dicendo) lui è... lui è... stato arrestato! Sono così spaventata. Per favore, chiamami appena senti il messaggio....”
Ero ufficialmente spaventata. Primo, perché mia zia al telefono assomiglia tantissimo a mia madre. Secondo, perché mio cugino Adam non è una persona che dovrebbe finire in prigione, mai. E terzo, perché come ci si può aspettare che io possa aiutare in una crisi di questa portata? Riuscivo a malapena a prendermi cura di me stessa!
C’è un’altra cosa che dovrei dirvi su di me, ma non mi piace tirarla fuori. Dato che non ho scelta, la butto lì e spero che non pensiate male di me, o facciate supposizioni sulla mia onestà o integrità. La verità è che... sono un avvocato. Ecco, l’ho detto. Spero che questo non abbia cambiato la vostra opinione su di me. Pratico esclusivamente il diritto di famiglia, il che significa che la mia area limitata di competenza comprende il divorzio, l’adozione, la paternità, la custodia e il mantenimento dei figli. Dico ‘limitata’ perché sono le uniche cose in cui ho competenza, ed è già abbastanza difficile starci dietro. Il problema è che amici, familiari, conoscenti e persino sconosciuti tendono a chiedermi consigli in aree legali di cui non so nulla. Mi dispiace davvero, ma non posso aiutarvi con un acquisto immobiliare, o dirvi quanto vale il vostro infortunio alla schiena; non posso aiutarvi a presentare richiesta di previdenza sociale, o consigliarvi se dichiarare fallimento. E di sicuro non posso rappresentarvi in una causa penale.
Per il bene di Adam, speravo che non fosse quello che mia zia aveva in mente.
Quando la richiamai, zia Peg era passata da isterica a stranamente calma e non so quale delle due cose mi preoccupasse di più. Disse che erano alla stazione di polizia di Hollywood dove Adam era detenuto. Doveva stare con lui, quindi non poteva parlare, ma mi avrebbe informato su tutto una volta arrivata.
“Arrivo lì il prima possibile”, dissi. “Voi tenete duro, ok?” Volevo sembrare rassicurante, ma non sono esattamente la cavalleria.
“Ci proverò, Jamie”, disse lei, la sua voce si incrinò. “Ma c’è un’altra cosa che ho bisogno che tu faccia...”
“Certo, zia Peg, cosa c’è?”
“Puoi venire vestita da avvocato?”
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Ciò che mi spaventava di più, come nuovo avvocato, era che ancora non immaginavo quanto fosse profonda la mia ignoranza. Più imparavo, più mi rendevo conto di quanto non sapessi. Ho sentito che le scuole di legge oggi insegnano effettivamente agli studenti come praticare la legge, e non solo ricerca e scrittura. Beh, era ora, dico io. Ora che sono dieci anni che faccio l’avvocato, so cosa fare e dove stare, come vestirmi e come negoziare e, se non sono sicura di qualcosa, di solito posso bluffare. Ho anche imparato a valutare i miei avversari: quelli nervosi con le mani tremanti, quelli spavaldi con qualcosa da dimostrare, e quelli freddi e sicuri di sé che avrei voluto emulare. Ma, come diceva il mio primo capo, metà della battaglia è solo presentarsi. L’altra metà è prepararsi al meglio con le informazioni che si hanno.
In questo caso, non avevo alcuna informazione su cui basarmi, tranne ciò che già sapevo della situazione di Adam. Mi sedetti al computer per trovare lo statuto di cui avevo bisogno e ne stampai rapidamente una copia, insieme agli emendamenti. Poi, guardandomi allo specchio, mi aggiustai il bavero del mio “tailleur del potere”, quello blu marino. Dopo aver messo l’elegante collana d’oro di mia madre, aggiustai i capelli e il trucco e conclusi spolverando la mia valigetta. Ero pronta. Se non fossi stata già un avvocato, avrei potuto facilmente interpretarne uno in televisione.
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