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Testi

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Terra d'ombra

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Terra d'ombra - Estratto del libro

Prologo – Il Narratore

“Il mio nome è Usher Vance, e ho vissuto una vita lunga e interessante, o così mi ha detto prima d’oggi chi come voi mi ha ascoltato.” Ricacciando indietro una lunga ciocca di capelli d’argento, il vecchio scrutò lo sparuto pubblico di volti in attesa e si sistemò più comodamente sulla familiare poltrona di pelle. Col passare degli anni aveva preso a considerare quella sedia come sua, e, come con una vecchia amica, era fin troppo consapevole dei suoi difetti e dei suoi pregi; cigolava ed era un po’ sfondata, e lui si comportò di conseguenza, spostando la sua mole abbastanza considerevole mentre cercava la pipa e il tabacco. Le sue dita iniziarono a caricare il fornello d’argilla con movimenti ormai quasi automatici, e l’uomo sorrise, godendosi il piacere di poter tessere ancora un’altra storia.

“Ho vissuto per più anni di quanti ne riesca a ricordare.” Si sporse in avanti per studiare meglio gli ascoltatori più vicini. “Forse più della somma di tutti i vostri anni messi insieme. Re mi hanno definito loro amico e barbari guerrieri hanno giurato di bruciarmi vivo e di darmi la caccia per tutti i sette regni degli Inferi.”

Diversi tra i più giovani erano irrequieti e cercavano con lo sguardo le figure rassicuranti di genitori o amici, ma la maggior parte si limitava a fissare il vecchio con espressione attenta, impaziente di sentire il resto del racconto, qualsiasi racconto fosse.

Quando l’estate si era trasformata in autunno e, più di recente, i primi giorni freddi avevano stretto quelle terre nella morsa dell’inverno, gli abitanti del villaggio si erano chiesti quale potesse essere l’argomento della storia di Usher per quell’anno.

La vigilia del solstizio d’inverno era una notte speciale per il villaggio, e l’evento, a memoria di tutti, era sempre stato celebrato con banchetti, danze e una delle storie di Usher Vance. Per la maggior parte dell’anno l’uomo se ne stava per i fatti suoi e narrava con riluttanza i suoi racconti che, quando finalmente venivano condivisi con gli altri, si rivelavano essere episodi della sua vita, anche se ben pochi tra gli abitanti credevano che fossero veri. Ogni anno, dopo aver ripulito la lunga tavolata comune dai resti del pasto, tutti si spostavano verso l’enorme caminetto e si sistemavano sulle diverse sedie e panche spaiate disposte lì attorno, lasciando al narratore la vecchia poltrona di pelle imbottita.

La pipa d’argilla mandava bagliori rossastri mentre il narratore tirava profondamente, facendo aumentare il calore assieme al senso d’attesa nella stanza; alla fine, quando la pipa fu ben accesa, il vecchio soffiò una lunga nuvola azzurrina di fumo, gettò l’accenditoio nel fuoco e puntò il bocchino verso i volti più vicini.

“Vedo che ci sono anche alcuni dei nostri amici più giovani qui con noi stasera, e se non temono di avere sonni tormentati nelle prossime settimane, dunque narrerò una storia… ma quale parte di questa vita devo porgere alle vostre orecchie?” Si appoggiò contro lo schienale e sospirò, con le bianche sopracciglia cespugliose aggrottate in un’espressione pensosa. “Una storia di tesori e tradimenti, o d’amore e di guerra, cosa posso raccontarvi? Ho vissuto così tanti anni, e veduto così tante cose, e tuttavia ci sono concesse solo queste ore d’oscurità in questa notte di metà inverno, il tempo di un unico, vero racconto per riempire la notte.” Inspirò un’altra boccata di fumo, poi si allungò a prendere un boccale di pelle e se lo portò alla bocca. Gli abitanti tenevano silenziosamente gli occhi puntati sul vecchio che beveva, incurante della birra che gli scorreva lungo la barba e finiva sul panciotto macchiato. Ripulendosi la bocca sulla manica, l’uomo si guardò attorno e decise che era quasi ora di cominciare, e che lui era pronto a gettare l’incantesimo che i maestri narratori intessono con le loro parole.

Il taverniere si fece avanti per sistemare un altro grosso ciocco sul fuoco, facendo crepitare e sputacchiare le fiamme e richiamando l’attenzione di tutti per un momento. Uno sbuffo di fumo si levò dalla legna, sfuggendo ai confini del caminetto e riempiendo l’aria di un odore dolce e ricco, mentre le fiamme continuavano a ruggire rabbiosamente. Alle menti ben disposte dei presenti, pronte ad ascoltare una storia, sembrò che un animale feroce stesse divorando un pezzo di carne di fronte a loro.

“Credo di avere trovato qualcosa,” riprese il narratore, richiamando il proprio pubblico. “Ho una storia che attende di essere narrata da molto tempo, una storia di battaglie e di amori, di salvataggi… e tradimenti. Quindi vi prego, mettetevi comodi, così possiamo cominciare.”

“Tanto tempo fa, quando ero ben più giovane di adesso, incontrai un re su una collina. Capii subito che era un re dall’eleganza dei suoi abiti e dal suo cavallo, candido come la neve più pura e vivace come…” Un rumore infranse la concentrazione nella stanza e il narratore si interruppe, puntando gli occhi sulla porta: il chiavistello sferragliava mentre qualcuno, senza successo, cercava di entrare. Un mormorio di disappunto per quell’inopportuna interruzione si levò dalle bocche di tutti, ma quel rumore continuò, e il borbottare si trasformò presto in grida: qualcuno doveva aiutare l’intruso, così il narratore avrebbe potuto proseguire.

Brontolando tra sé e sé, il taverniere spinse via la pesante tenda che copriva la porta per tenere fuori gli spifferi meno insistenti, e il pubblico si voltò di nuovo verso Usher Vance, che aveva approfittato di quella pausa per prosciugare il proprio boccale e porgerlo con un sorriso grato a una fanciulla che gliene diede in cambio uno pieno. Dopo aver preso un sorso, si preparò a ricominciare.

Il rumore della porta che si apriva e di qualcuno che veniva invitato a entrare fu accompagnato da una folata d’aria gelida che percorse tutta la stanza, passando però inosservata dalla gente che si risistemava a sedere, ansiosa di sentire il prosieguo della storia. La porta sbatté e i pesanti chiavistelli di legno furono nuovamente tirati, sperando che servissero da barriera contro eventuali ulteriori disturbatori.

Usher Vance si schiarì la gola e proseguì. “Ricordo che era una bella giornata, col cielo dell’azzurro più profondo e con una leggera spolverata di nuvole lontane che contrastavano con la sua perfezione; il sole brillava su di noi, come una luce gettata dai cieli per illuminare lo splendore di quel re e del suo nobile destriero. Il resto della scorta del re era a una certa distanza; il sovrano doveva aver cavalcato da solo fino in cima alla collina per godersi il panorama, e rimase chiaramente stupito nel vedere me, come io lo ero nel vedere lui. Ricordo di essermi inchinato profondamente mentre il re cercava, con poco successo, di controllare il cavallo imbizzarrito, con le froge spalancate dallo spavento nel trovare me che gustavo la bellezza della giornata; chiaramente sia il re, sia il cavallo avevano pensato, fino a quando non li avevo disturbati, di essere soli.

‘Buongiorno a voi, sire,’ gli dissi, sollevando lo sguardo verso un paio di gelidi occhi azzurri. ‘Il mio nome è Usher Vance e vi chiedo perdono per lo spavento che ho procurato al vostro cavallo.’”

Prima che potesse proseguire, una voce secca infranse l’incanto della narrazione, penetrando nella concentrazione del pubblico e facendo balbettare Usher.

“Ancora a raccontare stupidaggini, eh, Usher?”

Il narratore scrutò nell’ombra, cercando di vedere chi l’aveva disturbato, ma molti tra il pubblico presero a parlare, invitandolo a ignorare l’interruzione e proseguire, mentre altri sibilavano scontenti alla ricerca dell’indesiderato scocciatore. Usher Vance era un po’ scosso, ma vedendo che la gente ancora voleva ascoltarlo prese un’altra tirata dalla pipa per poter ricominciare, ma lo sconosciuto riprese a parlare nel momento stesso in cui lui aprì bocca.

“Se le inventa, e per qualche ragione mantiene il più assoluto riserbo sulle reali vicende della sua vita. Pensate che abbia una storia più grande che sceglie di nascondere?”

Il cipiglio si disegnò sul volto di Usher mentre cercava il disturbatore. Tutti si erano voltati verso la porta, e mentre guardava in quella direzione, Usher iniziò a sentire una prima, strana sensazione di inquietudine strisciargli nello stomaco. Nel caminetto un altro ciocco prese pienamente fuoco e fece ruggire le fiamme, illuminando i volti degli abitanti del villaggio e rivelando per la prima volta una figura china vicina alla porta.

Lo straniero, che si appoggiava pesantemente a un grosso bastone, era avvolto dalla testa ai piedi in un mantello di tessuto scuro che scintillava di piccole gocce di pioggia versate da poco in quella fredda notte d’inverno.

“Perché non gli racconti una storia vera, Usher? Perché non gli racconti chi è davvero Usher Vance, e da dove viene, invece di blaterare come un vecchio rimbecillito dalla vita talmente insulsa che non vale la pena raccontarla?” Lo sconosciuto fece un passo avanti e, sollevando una gelida mano bianca, si abbassò il cappuccio dalla tesa. In molti trattennero il fiato, e un bisbiglio interrogativo si levò tra gli abitanti del villaggio che si trovavano ad assistere a quell’inatteso spettacolo.

L’uomo distolse gli occhi da Usher e si guardò attorno. “Avete una celebrità, qui davanti ai vostri occhi, ma non quella che credevate.”

Usher sentì il sangue defluirgli dal viso, sconvolto dal riconoscere quel volto, e la pipa d’argilla gli scivolò dalla bocca, colpendo il pavimento di pietra con un leggero tintinnio e spezzandosi in due senza che lui se ne accorgesse.

“Non mi dai il benvenuto, Usher?” L’estraneo si avvicinò per accucciarsi ai piedi del narratore. “Ho compiuto un viaggio lungo e terribile per trovarti, vecchio amico, ma lo rivelerò un’altra volta. Adesso, però, ti imploro di narrarci una storia vera, Usher Vance, non una delle tue fantasticherie. Perché non ci racconti dei due ragazzini che si imbatterono nei lupi e videro il mondo che conoscevano andare in pezzi? Parlaci, Usher Vance. Sono passati così tanti anni, e i miei ricordi mi hanno quasi abbandonato.”

Per qualche lungo momento, Usher osservò i radi capelli bianchi e la pelle grigiastra e macchiata dello straniero, i cui lineamenti venivano rivelati dalle fiamme danzanti del fuoco, ma alla fine furono gli occhi ad attirare la sua attenzione, a parlargli di un altro tempo e di un’altra persona; quegli occhi ardevano ancora con un’intensità che aveva quasi dimenticato. Sospirando, mentre cercava di richiamare a sé i pensieri che si erano rifugiati nell’angolo più nascosto della sua mente, Usher si rivolse al visitatore.

“Buonasera, Calvador. Perdona il mio sconvolgimento, ma è stato difficile riconoscerti, dopo tutti questi anni. Ti sono sempre piaciute le entrate a effetto, non è vero?” Si guardò attorno, verso i volti ansiosi che lo circondavano, e sorrise nell’accettare un’altra pipa d’argilla. Si sporse a stringere la spalla della figura inginocchiata e la fissò negli occhi freddi e quasi gialli. “È bello rivederti, amico mio. Resterai qui ad ascoltare il racconto di un vecchio?”

“Rimarrò ad ascoltarti, Usher Vance, ma è la storia di due vecchi, non di uno; due vecchi che una volta erano ragazzi, costretti a crescere troppo in fretta. E mi piacerebbero una sedia e un boccale di qualcosa di caldo, se non chiedo troppo.”

Uno degli uomini lo aiutò a sedersi su una sedia vicina al fuoco mentre il taverniere gli portava un boccale di vino caldo speziato e una tazza di brodo. “Ti prego, Usher, comincia. Desidero ardentemente riascoltare i ricordi di un tempo passato.” Accettò il brodo e soffiò via il vapore dalla superficie prima di provare a prenderne un sorso. Dopo un attimo rialzò gli occhi. “È passato molto tempo dall’ultima volta in cui ho gustato qualcosa di così buono, grazie.”

Il taverniere annuì e riprese il proprio posto.

Vedendo che tutti si erano finalmente sistemati, Usher si raccolse di nuovo, pronto a iniziare un racconto che non aveva preparato ma che di certo conosceva meglio di qualsiasi altro. “Il mio nome è Usher Vance, e questo… questo è il mio amico Calvador Craen.” Il vecchio narratore osservò lo sparuto pubblico di volti in attesa e poi riprese. “Entrambi abbiamo vissuto vite lunghe e assai interessanti, e adesso cercherò di ricordare per voi parte di esse.” Prese un tiro dalla pipa appena accesa e annuì in apprezzamento. “Entrambi siamo molto più vecchi di quanto possiate pensare. Ma fatemi iniziare dal principio… Era la fine di una splendida giornata… molti, molti anni fa.”

Capitolo Uno – La Fine Di Un Giorno

Avvicinando la punta dei piedi al bordo della scogliera, Usher abbassò lo sguardo verso la roccia assai più in basso, dove Cal sedeva tremando nelle ombre che si allungavano. Se non l’avesse fatto in quel momento, allora non l’avrebbe fatto mai più, lo sapeva. Ricacciando indietro il buonsenso e maledicendosi silenziosamente, Usher fece un passo indietro e si decise a compiere quel salto che per tutta l’estate si era sentito destinato a fare.

“Cal, Cal! Guardami… Cal!”

Corse in avanti, spiccò un gran balzo per staccarsi dal ventre frastagliato della scogliera e volò, ebbro della sensazione dell’aria che gli vorticava attorno mentre cadeva, con le braccia e le gambe che si agitavano selvaggiamente nel mancare di pochi centimetri il roccioso affioramento di scogli chiamato il Dente.

“Caaaaaaaaaaaaaaaaaaal!”

Mentre le scure acque del lago gli sfrecciavano incontro, riuscì con estrema soddisfazione a vedere l’espressione scioccata sul volto che Cal aveva alzato per guardarlo. Sentì appena il suo grido, “Usher… razza di imbecille! Ush…” prima di colpire l’acqua gelida con un’esplosione che gli strappò l’aria dai polmoni e lo fece sprofondare in un mondo di confusione.

Il lago lo reclamò. Un rumore roboante gli riempì le orecchie, e Usher dovette lottare contro l’ondata di panico che minacciava di travolgerlo. Si sentì soffocare, e riuscì a malapena a resistere all’impulso di inspirare e riempire i polmoni doloranti d’acqua gelata. Il lago occluse tutti i suoi sensi, spumeggiando e vorticando, ricacciandolo a fondo mentre lui scalciava, cercando disperatamente in che direzione fosse la superficie che prometteva salvezza e dolce aria tiepida. Infine, quando meno se l’aspettava, la luce del sole tornò a rivelarsi, danzando sul pelo dell’acqua, e Usher batté freneticamente le gambe verso di essa, col bisogno di respirare.

Lentamente, molto lentamente, Usher si avvicinò alla luce scintillante, vincendo la riluttanza del lago a scioglierlo dal suo gelido abbraccio, e, dopo aver lottato per quelle che gli sembravano ore, infranse la superficie e inspirò a fondo prima di tossire. Il dolore esplose nella sua mano, che aveva battuto contro una roccia, ma lui lo ignorò e si allungò a fatica per aggrapparsi alla pietra fino al glorioso momento in cui riuscì a rilassarsi e controllare il proprio respiro.

“Usher? Usher?” Le grida di Cal lo richiamarono alla realtà.

Rialzando gli occhi per la prima volta, prese abbastanza fiato da potergli rispondere, ma poi vide che era riaffiorato a una certa distanza dal punto in cui si era tuffato, e che Cal gli dava le spalle dall’altra parte dello scoglio mentre, tutto agitato, scrutava le profondità del lago alla ricerca di qualche segno dell’amico. Molto lentamente, Usher si arrampicò sulla roccia e, facendo attenzione a dove metteva i piedi, percorse in silenzio la superficie pericolosa.

“Usher?” Cal stava tremando, con i piedi nudi che cercavano un appiglio mentre si avvicinava sempre di più all’acqua. “Usher? Per tutti gli inferi, Usher! Non saltiamo mai dalla punta, stupido caprone. Usher! Ush…”

Sporgendosi in avanti, Usher gli diede uno spintone, zittendo le grida dell’amico e buttandolo giù nell’acqua freddissima con le braccia che cercavano inutilmente di afferrare l’aria.

Usher si sedette, rabbrividendo e abbracciandosi le ginocchia, e sorrise quando, qualche attimo dopo, Cal riemerse in superficie tossendo e sputacchiando.

Usher, brutto…!” gridò Cal, chiaramente arrabbiato, spruzzando acqua addosso al suo tormentatore.

“Avanti, Cal, smettila di giocare ed esci dall’acqua prima di morire di freddo, non te lo dice sempre anche tua madre che questo lago è gelido?” Usher arricciò le labbra e, in falsetto, imitò la dispotica madre di Cal. “Calvador, vestiti bene e bada a tua sorella. Niente nuotate, arrampicate, cacce o divertimenti di alcun genere, hai capito, giovanotto?

Cal gli lanciò un pezzo di legno, e nel farsi da parte per evitarlo, Usher scivolò e incespicò, graffiandosi la schiena sulla roccia e scivolando di nuovo in acqua. Il suo volto si contrasse in una smorfia di dolore e la schiena si inarcò in uno spasmo, prima che l’acqua soffocasse improvvisamente il suo grido e lo sommergesse. Cal si lanciò in avanti, nuotando attorno alla roccia per cercare di afferrare l’amico che riemergeva sputando acqua. Si aiutarono a vicenda a risalire sullo scoglio, e Usher riuscì appena a borbottare un ringraziamento, col volto che ancora portava i segni del dolore che gli dilaniava la schiena.

“È ora di tornare indietro,” disse Cal mentre si arrampicava a raccogliere le loro cose; trovò la tunica di Usher e gliela gettò proprio quando l’amico si accasciava a terra. “Stai bene?” gli chiese.

Usher annuì.

Durante i lunghi giorni d’estate, il lago era il luogo preferito da tutti nel villaggio. Le donne vi lavavano gli abiti, quasi tutti sceglievano di farsi lì il bagno almeno una volta al mese, e molti usavano le acque poco profonde vicino al bosco per rinfrescarsi o per giocare quando avevano finito di lavorare. La scogliera, però, era un posto speciale per i ragazzi del villaggio: era tradizione sfidarsi l’un l’altro ad arrampicarsi sempre più in alto prima di tuffarsi nelle lontane, gelide acque del lago.

In quel tardivo periodo dell’anno, c’erano pochi altri nuotatori in giro, specialmente visto che a fine giornata si levava una brezza gelida. Sarebbe stata l’ultima nuotata di Usher e Cal, per quell’estate, e quindi Usher aveva fatto l’unico salto che nessun altro ragazzo del villaggio aveva mai osato fare.

Si infilarono frettolosamente le brache e le ruvide tuniche di lino, tremando, battendo esageratamente i denti e ridendo degli sforzi che dovevano compiere per vestirsi. Usher lottò con la stoffa che non voleva saperne di cedere, cercando di tirarla più giù sul proprio corpo in crescita: a quattordici anni, cresceva in fretta, più in fretta di quanto sua madre riuscisse a cucirgli abiti nuovi. D’un tratto, con un rumore che li fece fermare di botto, il lino si strappò sullo scollo.

“Oh, accidenti!” gemette Usher. Inspirando a fondo, sistemò lentamente l’ostinata tunica prima di controllare il danno.

“Si è solo aperta sulla cucitura,” notò Cal. “Forse Nineve potrebbe aggiustartela prima che la veda tua madre.”

Usher scosse la testa. “Nineve può anche provarci, ma ha solo otto estati e dubito che sappia ancora cucire bene, non ti pare?” Non aspettò una risposta. “Forza, andiamo, la luce sta svanendo.”

Se si fosse fatto troppo buio, il sentiero sarebbe diventato pericoloso. Entrambi avevano finito la scalata dopo il tramonto in diverse occasioni, costretti a percorrere gli ultimi metri al buio, sperando di trovare l’appiglio successivo e di non restare bloccati sulla scogliera fino al sorgere del giorno.

Quando finalmente raggiunsero la cima, il sole stava sfiorando l’orizzonte con gli ultimi raggi che scintillavano sul lago in un accecante spettacolo di colori. Si sedettero a riposare, osservando rapiti il sole che si scioglieva lentamente dietro gli alberi lontani, tingendo il cielo di una sfumatura rosso sangue e dipingendo di rosa profondo una nuvola solitaria. Sollevando gli occhi, i ragazzi ammirarono le mille sfumature di arancione e giallo prima che si trasformassero in verde e poi in blu, a celebrare in modo memorabile la fine dell’ultimo giorno d’estate. Le prime stelle erano già comparse, e la luna crescente brillava alta a est del cielo; ben più in basso, un trambusto attirò la loro attenzione verso il centro del lago: un gruppo di papere che sguazzavano sulla liscia superficie arancione dell’acqua venne nella loro direzione, acquistando velocità per cercare di levarsi in aria. Quel movimento improvviso spinse i ragazzi ad agire, facendoli balzare in piedi e sciogliere le fionde che portavano in vita prima di frugare in giro alla ricerca di pietre ben arrotondate.

Cal fu pronto per primo. Facendo vorticare la fionda attorno alla propria testa, lasciò andare la pietra ma gemette subito dopo quando il sasso mancò il bersaglio, spaventando le papere e facendole allontanare. Quando Usher si alzò, un momento dopo, l’opportunità era già svanita.

Camminarono in silenzio verso gli alberi. Ancora umido dopo la loro nuotata, Usher aveva gli abiti incollati addosso e si sentì rabbrividire per la gelida carezza dell’aria serale, desiderando di trovarsi già al caldo del caminetto.

Raggiunsero la foresta, dove il sentiero si faceva più buio, con la luna che filtrava oltre il fitto tetto di foglie e offriva a malapena abbastanza luce da rendere visibile la superficie calpestata che si snodava davanti a loro. Entrambi conoscevano bene quel percorso.

Tutt’attorno a loro si sentivano i suoni della foresta, grilli, gufi, le rane dello stagno e l’occasionale passo più pesante di animali più grossi che strisciavano nel sottobosco; erano i rumori dei cacciatori e dei cacciati. Qualcosa si schiantò tra i rami accanto a loro, e i due ragazzi aumentarono il passo, bramosi di trovarsi finalmente al caldo nel villaggio.

L’odore del fumo dei fuochi accesi per cucinare fu il primo segnale che il villaggio non era ancora lontano. Aleggiava nell’aria, tra gli alberi, portando alle loro narici lo stuzzicante aroma della carne cotta e delle verdure arrostite. Smarriti per un momento tra gli inebrianti profumi della serata, i ragazzi non videro ciò che si trovava sul loro cammino fino a quando non fu quasi troppo tardi.

Usher tirò giù Cal e lo fece acquattare tappandogli la bocca con la mano, mentre a una certa distanza da loro le sagome nere di tre lupi emergevano dagli alberi e rimanevano immobili al centro del sentiero, col naso levato per aria a cercare di comprendere gli odori sconosciuti attorno a loro.

“Non attaccheranno,” sussurrò Cal a bassa voce, sperando di sembrare più sicuro di quanto non fosse. Rimase accucciato, incerto sul da farsi. I lupi non li avevano ancora visti, ma non si stavano nemmeno allontanando.

I lupi normalmente stavano lontani dalla gente, e attaccavano di rado, specialmente in quel periodo dell’anno quando la selvaggina abbondava ancora; la loro comparsa così vicino al villaggio, quindi, era a dir poco inusuale. Quando la brezza cambiò, la testa del lupo più grosso scattò verso di loro, con i denti scoperti e gli occhi che mandavano bagliori argentei alla luce della luna. Dalle sue fauci uscì un basso ringhio.

“Usher,” sussurrò Cal, ma Usher non rispose, tirò fuori la fionda e si mise a cercare il sasso che aveva trovato prima. Era troppo tardi per prendere un’anatra, ma forse quel sasso era invece destinato a un lupo. L’animale fece un paio di passi in avanti, mentre due dei suoi compagni si guardavano attorno per vedere cosa l’avesse disturbato, e poi, all’improvviso, un quarto lupo uscì dall’oscurità dei cespugli e si unì agli altri. Il suo arrivo attirò l’attenzione degli altri lupi, che lo osservarono mentre leccava il muso del lupo più grosso come atto di sottomissione. Un momento dopo, il grosso capo ringhiò e tornò a guardare i ragazzi, che però erano già scivolati via.

“Non ti fermare,” sussurrò Usher, spingendo Cal ad avanzare nel buio.

“Ci stanno inseguendo?”

“Be’, se non lo stanno già facendo, lo faranno presto. Dobbiamo riuscire ad arrivare al villaggio, non oseranno seguirci lì dentro.” Alle loro spalle un lupo ululò, infrangendo il silenzio della notte; un secondo ululato seguì momenti dopo, e poi un terzo. Mettendo da parte ogni tentativo di essere silenziosi, i ragazzi si misero a correre nell’oscurità, sentendo dietro di loro il rumore dei lupi che li inseguivano. I rami li schiaffeggiavano e graffiavano mentre correvano alla cieca, cercando disperatamente un modo per allontanarsi dalle forme e dalle ombre che torreggiavano su di loro. Continuarono ad avanzare, incespicando, inciampando e cadendo su cespugli impossibili da vedere e scontrandosi contro alberi, tenendo le braccia sollevate per cercare di proteggersi il volto.

“Ci stanno raggiungendo,” gridò Cal con voce terrorizzata e rotta dalla fatica. “Li sento, sono più vicini!”

“Arrampicati.” Usher afferrò l’amico e lo spinse verso la sagoma scura di un grosso albero, con i rami a malapena visibili ma con almeno uno abbastanza basso su cui potersi arrampicare. Cal si sollevò mentre Usher aspettava con impazienza. “Sbrigati!” lo incitò, e poi lo seguì rapidamente appena ci fu spazio anche per lui. Gli ululati famelici dei lupi, che non staccavano gli occhi dalle prede, si facevano sempre più forti, e Cal invece non riusciva a spostarsi sul ramo successivo.

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